lunedì 16 ottobre 2017

C’è un posto a tavola anche per la tristezza


“La depressione è una signora vestita di nero che bisogna far sedere alla propria tavola ed ascoltare”. Carl Gustav Jung

E’ un invito ad accoglierla ed ascoltarla perché ha qualcosa da dirci su di noi; qualcosa che si presenta con un aspetto un po’ tetro, ma che in realtà ci appartiene, e soprattutto potrebbe esserci utile.

Quello che si può definire “umore nero”, è composto da sentimenti di delusione, frustrazione, tristezza, e spesso sensi di colpa.

Perché i sensi di colpa?

Perché avvertiamo di non essere come idealmente dovremmo o vorremmo essere, secondo il nostro ideale dell’Io; perché sentiamo di esserci discostati da un precetto morale, da come dovremmo essere secondo l’educazione ricevuta, magari troppo rigida, e non così realistica. In base ad essa non riusciamo ad accettare i nostri errori, le nostre discrepanze rispetto al modello.  

Un’altra importante causa del senso di colpa è la comprensibile rabbia, provata a fronte di una frustrazione, delusione, costrizione; tale rabbia può essere erroneamente considerata negativa o “cattiva”, e dunque provocare ulteriori sensi di colpa.

Se si riesce a sollevare la rabbia dal peso dei sensi di colpa, e spesso ciò avviene nello spazio dialogico e non giudicante della psicoterapia, essa diventa combattività e può essere molto utile a prendersi spazi psichici dove poter affermare se stessi, nonostante e talvolta proprio a partire dalle inevitabili frustrazioni.

A tal proposito è interessante notare come nei sogni delle persone depresse, accanto ai paesaggi gelati e desertificati che descrivono la loro situazione psichica, compaiono con una certa ricorrenza animali che lottano per il territorio e che rispondono istintivamente ad una situazione di difficoltà.

I sogni consentono di riprendere il contatto con emozioni che, per quanto disturbanti, aiutano a lottare per la propria autonomia.

La rabbia è solo uno degli aspetti che possono emergere ed essere utilizzati, poi ci sono tutti gli scostamenti dall’ideale, che però corrispondono autenticamente a noi e alla nostra vita. Le frustrazioni stesse.

Quali sono le possibilità di venire a patti con una frustrazione?

Innanzitutto è importante non sentirsi, per ciò stesso, da meno; come se non fosse prevista la frustrazione nelle proprie vite, in un paradigma in cui le performances siano sempre al massimo, e in cui tutti i desideri siano appagati; e se così non è deve essere responsabilità di qualcuno, preferibilmente nostra.

Cambiando prospettiva, invece, si può prendere atto della frustrazione, e accoglierla come parte di sé accanto ad altre, acquistando così conoscenza, realismo e libertà, anche di perdere eventualmente.

Ricordo il sogno di una paziente in cui la protagonista partorisce pietre, e si occupa di loro quasi come fossero dei bambini. Per lei è stato possibile attraverso il sogno riconoscere l’importanza di occuparsi anche degli aspetti frustranti della propria vita (le pietre), e di quanto tutto questo le desse in realtà solidità e libertà.

Mi viene in mente l’aforisma impresso all’entrata del museo Kiasma di arte contemporanea ad Helsinki:  “Viviamo in un mondo folle in cui tutti vogliono tutto a tutti i costi”.

Se è questo il clima culturale in cui viviamo, da un lato è più difficoltoso prendere atto e accogliere le proprie frustrazioni, perché in contrasto con le aspettative diffuse, seppur folli; ma allo stesso tempo diventa ancora più importante farlo, per favorire la propria integrazione e sanità mentale, che comprende e necessita anche degli aspetti frustranti, vissuti questa volta con realismo e libertà.

Questo argomento viene trattato anche nel mio sito, nei post DepressioneDepressione: è utile la terapia di coppia?